domenica 16 dicembre 2012

Il Concilio è la "nostra" Chiesa

Il Concilio Vaticano II – del quale celebriamo quest’anno il 50° anniversario – anticipò in modo profetico quanto fosse necessario ricollocare la Chiesa nel contesto della contemporaneità, avvertendo che nuove culture e nuove istanze interrogavano la fede, quindi occorrevano occhi diversi, per vedere aspetti diversi della sempre uguale Rivelazione. La verità assoluta è trascendente e nella sua trascendenza dà spazio a interpretazioni diverse.

Il Concilio pose la Chiesa (perché è solo su questo aspetto che qui focalizzeremo la nostra riflessione) nell’orizzonte della cultura contemporanea, di allora, che ci guida alla riflessione anche oggi rispetto alla secolarizzazione e alla post modernità, parti di un fenomeno che è stato chiamato «fine della cristianità», dove per fine della cristianità si intende fine di una situazione storica dove il cristianesimo era la religione unica della nostra società. Un modo di incarnare il cristianesimo che oggi, di fatto, è superato.

Dobbiamo avere ben chiaro che «fine della cristianità» non significa fine del cristianesimo, che si può incarnare anche in forme nuove; si tratta di trovare modelli nuovi, non sperimentati. È anche difficile definire i contorni della cristianità; tuttavia non c’è dubbio che oggi c’è qualcosa di grandemente diverso nel modo di esistere della Chiesa nella società occidentale. Nella società c’è qualcosa di culturale in atto che va capito: intanto non è più scontata l’appartenenza alla Chiesa, la partecipazione alla vita liturgica è calata, c’è una diffusa ignoranza sul cristianesimo e sui suoi contenuti. Sembra in atto più una diffusa indifferenza che una aperta opposizione. Su alcuni aspetti, soprattutto di tipo morale, si pensa di poter decidere in proprio. Un certo modo di pensarsi presente nel mondo da parte della Chiesa, che in passato ha permesso la trasmissione della fede, può essere più un peso che una risorsa. Ad esempio: la parrocchia sempre presente dovunque nella società civile in cui il perno è sempre il prete (parrocchia deriva dal greco e dice proprio la presenza della chiesa dove ci sono le case).

Un certo modello di presenza ecclesiale ormai è un peso, più che altro. Lo stesso magistero invita a una nuova evangelizzazione dell’Europa, perché si pensa che l’occidente non è più evangelizzato.
La crisi del modello della cristianità è da legarsi con l’affermarsi della modernità e con il modello della modernità avanzata, che è la secolarizzazione, che va presa in seria considerazione. Di solito è interpretata secondo i codici della scristianizzazione, dell’ateismo e dell’indifferenza religiosa. Ma questo non ci dice in che cosa consiste. Gli stessi studiosi ne danno interpretazioni diverse, anche divergenti. La secolarizzazione è da leggersi innanzi tutto come effetto del fatto che la religione non può più rappresentare «l’unico» fattore di integrazione sociale. Il fattore religioso si trova a vivere in una società differenziata.

Se in passato ci si chiedeva che cosa rende «società etica» un insieme di persone si diceva che è il fenomeno religioso. Oggi non è più così, perché la religione abita una società segnata da diversi sottosistemi: rappresenta soltanto uno di questi sottosistemi. I fondamentali sottosistemi sono: quello economico, che si organizza in base al codice simbolico del denaro; quello politico, che ha il suo codice nel potere; il sistema giuridico, che ha il suo codice nel diritto; il sistema famiglia il cui codice è l’amore; il sistema educativo che ha come codice la valutazione soggettiva; il sistema arte con il codice del bello; il sistema morale con codice bene; il sistema religioso con il codice fede e salvezza. La società si organizza in questi sotto sistemi. Ogni sottosistema funziona in se stesso con i propri criteri e codici. La fine del macro fenomeno della cristianità si spiega con questa frantumazione. Il sistema religioso si deve integrare in questa complessità.

Non abbiamo lo spazio sufficiente per approfondire queste problematiche (non si potrebbe continuare a farlo nel blog di Testata d’Angolo?) e allora molto sinteticamente proviamo a delineare quale modello è possibile per la Chiesa in questa società complessa, perché per noi significa non tanto impostare uno studio teorico, ma cercare di capire che cosa fare domani mattina. Vorrei farmi aiutare dalla recente Lettera pastorale del nostro Arcivescovo «Devi nascere di nuovo», là dove riflette sulla Chiesa «madre e maestra». In questa lettera chi cerca una risposta «organizzativa» resta deluso, perché all’Arcivescovo Cesare Nosiglia interessa soprattutto «non lasciarsi prendere dalle cose da fare e dalla funzionalità di una pastorale». Le parrocchie devono essere soprattutto «comunità di credenti, meno preoccupate di far funzionare bene la pastorale, i servizi e le strutture e più aperte all’accoglienza del mistero di Cristo quale fonte prima della salvezza, ricordando che il Vangelo è credibile e affascinante, se chi lo propone è credibile e affascinante».

Le comunità sono chiamate ad accompagnare rispettosamente ogni vicenda umana, evitando che l’istituzione giudichi e esiga un prezzo prima di donarti qualcosa. Come per Gesù, ogni persona deve essere unica, un tesoro prezioso da riconoscere e valorizzare. Ogni incontro, anche il più banale, come la consegna di un certificato, deve essere nel segno dell’amore e non semplicemente della funzionalità. Al dottore della Legge che gli chiede qual è il primo comandamento Gesù risponde «Il primo è amerai il Signore tuo Dio... e il secondo è ama il prossimo tuo come te stesso». Dio è la fonte dell’amore, ma non possiamo dare per scontato che dalla fonte poi scorra l’acqua, se costruiamo dighe per fermarne il corso. E per farla scorrere dobbiamo mettere in pratica anche il secondo comandamento «Ama il prossimo tuo come te stesso». Fratello mio, per comunicarti qualcosa, per farti toccare con mano il mio amore non posso far altro che cercarti, poi cercare di capirti, poi, anche se non riesco a capirti, donarti comunque attraverso me (quale impegno immane) l’amore di Dio e poi, cosa ancora più difficile, non chiederti mai un contraccambio. Lasciare che sia lui a desiderare di risalire alla fonte. Dobbiamo amare per primi, come Dio ci ha amati per primo, anche quando non eravamo per nulla «amabili». E amarli ciascuno, uno alla volta, ciascuno con il proprio nome e non una massa indistinta di fratelli.

L’amore è contagioso. Quando ami una persona, poi ne ami un’altra e un’altra ancora. Se la società contemporanea è caratterizzata da sottosistemi sempre più complessi, che hanno poi come esito la frammentazione sociale e l’esaltazione del singolo (non della persona) e il soddisfacimento dei suoi esclusivi desideri, questo modo di amare costruisce una Chiesa che esalta la persona (unica e irripetibile) in un contesto comunitario in cui ognuno è chiamato a costruire il bene comune. Questo mi sembra il fine a cui tendere.

diacono
Roberto PORRATI

articolo pubblicato su "Testata d'Angolo" del 25 XI 2012

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