venerdì 17 settembre 2010

Grazie, Don Nicolino!

È morto il 19 maggio don Nicolino Rocchietti, 89 anni, già parroco di Santa Maria di Pulcherada e primo parroco del Sacro Cuore di Gesù – Sambuy. Pubblichiamo un ampio ricordo a cura del diacono Roberto Porrati.

A distanza di quattro mesi dalla morte di don Nicolino, possiamo rifl ettere con calma sull’eredità lasciata da questo sacerdote alle comunità di San Mauro, cui ha dedicato gran parte della sua vita. Alcune caratteristiche lo contrad-distinguevano; una era la cordialità. Non aveva mai fretta quando incontrava qualcuno, c’era sempre tempo per tutti. Sapeva ascoltare, poi magari consolava con un sorriso, oppure scuoteva con una battuta, in ogni caso chi passava dall’uffi cio parrocchiale qualcosa di signifi cativo lo riceve-va sempre.Era il punto di raccordo tra le generazioni che, una dopo l’altra, passavano per l’oratorio. Aveva poi una particolare attenzione per gli ammalati.

Capitava spesso di trovare appeso fuori dall’ufficio un cartello «Sono per ammalati». Non li lasciava mai soli: pregava con loro, portava la comunione, raccoglieva la disperazione per trasformarla in speranza. Quella dei biglietti era poi una sua caratteristica particolare; ne aveva uno per ogni occasione, redatto con la sua bella grafi a: «Sono per amma-lati», «Sono in oratorio», «Sono in chiesa», «Sono in Curia» e ciò che contava non era tanto far sa-pere dove andava, ma il fatto che con quei biglietti volesse stabilire un rapporto continuo con i par-rocchiani, «Sono assente, ma ci sono e cerco di fare qualcosa di utile». Era in fondo un segno di rispetto verso di loro. Parlando con i più vecchi della comunità non era raro ritornare alle esperienze fondative; per esempio su come si era fat-to l’oratorio.

A volte mi diceva «Sono un prete robivecchi» (lui però lo diceva in dialetto, fera-miù). Raccoglieva il ferro e ogni cosa fosse vendibile per ricavare soldi per l’oratorio, che si è co-struito così, un pezzo di ferro dopo l’altro, e in tal modo stimo-lava anche qualche bel contribu-to dai parrocchiani. Se una cosa andava fatta, biso-gnava farla subito. Fait fait (fatto, fatto in dialetto) era diventato il suo soprannome. Mi diceva che le cose non ultimate era come se non fossero state fatte per niente, delle inutili incompiute. Una cosa non finita in ogni senso: un impianto elettrico non collegato non serviva, ma non serviva neanche una fede tiepida, che non sapeva decidersi a fare il passo defi nitivo.

Il fare era per lui quasi sinonimo di essere. Deciditi a «essere», che abbiamo tanto bisogno di «fare». Questa sua caratteristica fu fon-damentale per la rinascita e la funzionalità della Casa di Ripo-so San Giuseppe, eravamo negli anni 1975/76 . Per suo insistente interesse, unitamente al dottor Scippa, come ci ricorda Stefano Armellino, fu possibile coinvolgere nella complessa e onerosa attività di trasformazione della strut-tura personaggi, organizzazioni e popolazione nel disinteresse della Pubblica amministrazione. Da organista non si limitò a suonare, sentì il bisogno anche qui di fare e, insieme a mons. Pistoni, pubblicò un piccolo volume di canti per animare la liturgia, il «Cantemus Domino».

Quando negli anni ottanta si ebbe la grande trasformazione di San Mauro con l’arrivo di migliaia di persone, si spese molto per l’integrazione di tante per-sone così diverse. Cominciò con l’andare a dire Messa nei cortili dei nuovi condominii, lo fece con insistenza e determinazione, anche quando non era ben accolto, convinto che la Parola si dovesse portare comunque, anche quando era difficile. Con lui la parroc-chia del Sacro Cuore diventò un punto di riferimento per gli abi-tanti della case popolari, soprat-tutto per i giovani ai quali aprì l’oratorio. E non fu per niente facile. Fu tollerante e accogliente anche verso persone per le quali la tolleranza e l’accoglienza non erano precisamente valori. La comunità era per lui un valore assoluto e per questo era attento anche a conservarne la memoria.

In occasione del Giubileo del 2000 si organizzò al Sacro Cuore un triduo, partecipato da centinaia di persone nelle tre serate, per rifl ettere sull’occasione e, fatto forse unico, fece pubblicare gli atti del Triduo, proprio per conservarne la memoria. Ci ha consegnato un modello di chie-sa non basato sull’autorità, ma sulla Parola meditata, pregata, vissuta, testimoniata e sul servi-zio. Poteva lasciarci un modello più convincente da seguire? Poi certo, aveva anche i suoi difetti, ma, francamente, quelli sono un patrimonio condiviso da tutti, mentre le qualità signifi cative sono patrimonio di pochi e lui era tra questi. Per questa ragione il Consiglio pastorale, su propo-sta del parroco don Ilario, ha deciso di dedicargli la Casa di Ulzio, la vecchia baita Sanbuy, che con così tanta determinazione aveva voluto. Un modo per non scordarlo.

diacono Roberto PORRATI
Questa bella immagine ritrae don Luigi Caramellino all'ingresso del Duomo in occasione della visita del Papa, il 2 maggio 2010.

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