lunedì 12 marzo 2012

Il dottorato? Forse a New York


NEW YORK – È difficile descrivere la sensazione che si prova vivendo un’esperienza lunga trenta ore scarse, attesa per tanto tempo. Mesi di stress causato da una burocrazia tanto rigida da apparire ridicola, esami di inglese, lettere di raccomandazione, certificati e ancora certificati, una storia infinita che si riduce a due momenti fondamentali: il primo, quando a poche ore da Capodanno sei al cinema a vedere Sherlock Holmes 2, e durante la pausa tra il primo e il secondo tempo ricevi l’e-mail che ti invita a sostenere un’interview, presso il Sackler Institute del New York University Medical Center, dove hai mandato la domanda per svolgere il dottorato solo un paio di settimane prima. Il secondo, due mesi dopo, è il momento in cui ci siamo, è ora di partire. Un viaggio intercontinentale quasi completamente sponsorizzato da una delle principali università newyorkesi, inclusa la permanenza presso un hotel a quattro stelle su Madison Avenue.
A New York ogni potenziale futuro studente riceve una cartellina zeppa di documentazione, compresa una dettagliata descrizione – o meglio, schedule – di quello che lo attende nel prossimo giorno e mezzo. Si inizia con un paio di seminari volti a dare l’idea di quanto interdisciplinare sia il lavoro svolto presso il Medical Center. A cena, la fame nervosa ti porta a divorare con una foga da record un’insalata che non hai
neanche bene idea cosa contenga, mentre ti accorgi, con un certo sgomento, di essere forse l’unica persona non di madrelingua inglese. Per distrarci dall’ansia per ciò che ci aspetta, la serata è all’insegna di un tipo di cultura un po’ meno scientifica: la prima di «Jesus Christ Superstar» a Broadway, con tanto di coda chilometrica ad aspettarvi all’entrata del Neil Simon Theatre.
Il Grande Giorno inizia con un meeting con il Preside, che consegna ad ognuno una pallina antistress per affrontare al meglio le interviste imminenti. Mettendo da parte i problemi logistici per trovare, in mezzo a quel marasma, le varie aule, non è poi così male. Dal professore più pignolo, interessato a vita, morte e miracoli della tua ricerca, a quello che vuole solo parlarti di ciò che si fa nel suo laboratorio. Dopo l’ultima tra le quattro piccole grandi imprese, c’è un sospiro di sollievo tanto profondo da scavare un altro Grand Canyon. Seguono i saluti finali, un happy hour con prof e studenti, il giro dei residence e la cena a base di sushi e karaoke, durante i quali sei talmente stanco che ti sembra di essere in piedi da almeno tre giorni.
L’esito, tra una decina di giorni. Le impressioni, troppe per poterle raccogliere in un’unica parola. La certezza è che in ogni caso, qualunque sarà la conclusione di questa storia, è stata un’Esperienza di quelle con la E maiuscola.

Cristina Parola

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