domenica 17 febbraio 2013

La Fede dei fratelli

La nostra Unità Pastorale, che raccoglie le parrocchie di San Mauro, ha iniziato in modo originale l’Anno dedicato alla Fede da Papa Benedetto. Nel mese di gennaio i cattolici sanmauresi si sono incontrati con gli ebrei in sinagoga e con gli evangelici nella parrocchia del Sacro Cuore. Due avvenimenti interessanti e importanti che ci hanno messo nella condizione di valutare la nostra fede a partire dalla fede degli altri. Uno sforzo di comprensione che ci ha interrogati fin nel profondo. E anche un atto di amore di cui si sentiva bisogno.

La visita alla sinagoga di Torino ha comportato uno sforzo per capire la fede dei nostri fratelli ebrei sia attraverso un cammino di preparazione che è stato fatto con il Gruppo missionario di Up, sia attraverso le spiegazioni che ci sono state offerte in modo particolare dal rabbino Somekh che ci ha accolti e accompagnati. I risultati di questo percorso di comprensione sono stati sorprendenti e stimolanti. Ha colpito inizialmente il particolare rapporto che l’ebreo, come popolo e come persona, ha con Dio. Abbiamo imparato che importante per l’ebreo non è conoscere la natura di Dio, questione che ha invece molto impegnato la riflessione cristiana, sia occidentale che orientale, nel corso dei secoli. Ciò che conta è cercare di sapere che cosa Dio vuole che noi facciamo. Es. 24,7 «Tutto ciò che il Signore ha detto noi lo eseguiremo e lo staremo a sentire». Da qui la concezione ebraica di Dio, che nel corso dei secoli definisce l’halachà, la via da seguire o regola da rispettare. Tutta la vita dell’ebreo è spesa per cercare, applicando l’halachà, di diventare immagine di Dio, che è al contempo assolutamente trascendente e inconoscibile, ma che anche cammina con il suo popolo.

All’ebreo interessa di più questa vita dell’altra. Vuole vivere santamente questa vita, indipendentemente da futuri premi o punizioni. Il fine della vita è osservare le leggi di Dio date con la Toràh. Nella Toràh e in altri testi (soprattutto i profeti) e in alcuni brani liturgici ci sono riferimenti al Regno dei Morti e a un’epoca di resurrezione, ma siccome nulla è detto di preciso si sono sviluppate correnti diverse, nessuna delle quali considerata eretica. La preghiera ebraica poi ha il cuore nell’annullamento della volontà umana dinnanzi al dovere di servire Dio. Non è tanto frutto di sentimenti estemporanei e non si esprime in parole improvvisate che sgorgano dal cuore come fatto emotivo (anche se è ammessa), ma ha una forma fissa e codificata. Prescinde dalla situazione personale e dalle richieste personali e rappresenta un atto di omaggio e sottomissione a Dio e alla sua potenza. È di riconoscimento, o glorificazione, di inno, lode, richiesta, ringraziamento, benedizione a Dio. Ha due ramificazioni: la berachàh (benedizione) e la tefillàh, che è il rituale liturgico che si celebra in sinagoga. Anche la casa, oltre alla sinagoga, è un luogo di preghiera; la casa ebraica è ritenuta un santuario e la mensa quasi un altare. È in casa che il venerdì sera si accoglie il sabato. La donna accende le candele e recita la relativa berachàh. In casa si fa il kiddùsh (la santificazione della festa), dicendo la benedizione sul vino. Ed è sempre in casa che alla sera del sabato si celebra una breve cerimonia sottolineando il passaggio ad un’altra settimana di lavoro. In sostanza vale quel che si diceva all’inizio: all’ebreo non interessa conoscere l’essenza di Dio.

L’ebraismo è la religione dell’azione, perciò è etica in atto. L’uomo capisce Dio operando. Il buon agire, cioè l’etica, diventa l’asse portante e già questo mi sembra una bella ricchezza che ci è stata consegnata dalla visita in sinagoga. L’incontro con gli evangelici è stato altrettanto ricco. Si è svolto nel contesto della Settimana di preghiera per l’Unità dei Cristiani ed ha visto i due predicatori (il pastore Paolo Ribet per gli evangelici) affrontare i temi suggeriti dal profeta Michea e da Paolo con la Lettera ai Galati. La predicazione incisiva del pastore Paolo Ribet ha colto l’urgenza pressante di giustizia che emerge dal processo che Dio intenta al popolo di Israele al quale chiede di «praticare la giustizia, amare la bontà, camminare umilmente con il tuo Dio» (Mi 6,6-8). L’attualizzazione ha colto l’analogia tra i tempi di Michea, caratterizzati da scossoni politici, turbolenze internazionali, ingiustizie sociali e degrado religioso e i nostri non meno agitati e incerti sia sul piano nazionale e internazionale, che etico/morale. Ha fatto emergere anche in questo caso una forte esigenza etica che discende dal praticare la volontà di Dio, che si ricava dal suo insegnamento. Paolo poi, è il commento di parte cattolica, ci guida verso un itinerario di fede che consiste principalmente in Gesù Cristo, il Giusto per eccellenza; per suo tramite possiamo entrare in un giusto rapporto con Dio e tra di noi, in comunione con il Padre e con il mondo. È la stessa fede di Abramo, che anticipa di 430 anni la Legge, e più ancora quella di Gesù, che abbatte le barriere della legge, di tutte le leggi. Emerge che la «legge» di Gesù va oltre il pedagogo che impone precetti e proibizioni ed è la legge dell’amore che ci rende una cosa sola con Cristo. E questo ci rende liberi e non ha più importanza essere ebreo o pagano, schiavo o libero, uomo o donna. È la vocazione ad amare secondo lo spirito e l’esempio di Gesù. È quell’amore che ci fa accogliere il prossimo (che è poi Gesù nelle sue varie manifestazioni: il carcerato, l’assetato, l’affamato, in una parola «l’altro», soprattutto nel bisogno) e nell’accoglienza ci riempie di Gesù e ci trasforma in lui («non sono più io che vivo in Cristo, è Cristo che vive in me», è la meta indicata da Paolo). È il fratello la via per arrivare, con la mediazione di Cristo, al Padre.

L’amore attraverso le Beatitudini trascende la legge/prescrizione e diventa un codice etico/esistenziale fondato sul dono integrale e gratuito di sé. Non hanno pesato le differenze teologiche, che non siamo certo noi chiamati a risolvere e che nella vita concreta fatta di ricerca di rapporti e rispetto non devono pesare più dell’amore reciproco, si è vissuto un intenso momento di unità. In conclusione la visita in sinagoga e la preghiera ecumenica hanno avuto un tema costante e comune: l’etica praticata e vissuta. Senza l’etica praticata l’incoerenza con l’insegnamento del Padre è massima. Nella omelia della Messa delle Ceneri, il Papa ha detto: «Anche ai nostri giorni molti sono pronti a ‘stracciarsi le vesti’ di fronte a scandali e ingiustizie, naturalmente commessi da altri, ma pochi sembrano disponibili ad agire sul proprio ‘cuore’, sulla propria coscienza e sulle proprie intenzioni, lasciando che il Signore trasformi, rinnovi e converta». L’etica ricercata, praticata e vissuta potrebbe essere per tutti noi un buon cammino quaresimale (e non solo).

Diacono Roberto PORRATI

Articolo pubblicato su "Testata d'Angolo" del 17/02/2013

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