La nostra Unità Pastorale,
che raccoglie le parrocchie
di San Mauro, ha iniziato
in modo originale l’Anno
dedicato alla Fede da Papa
Benedetto. Nel mese di
gennaio i cattolici sanmauresi
si sono incontrati con
gli ebrei in sinagoga e con
gli evangelici nella parrocchia
del Sacro Cuore. Due
avvenimenti interessanti
e importanti che ci hanno
messo nella condizione di
valutare la nostra fede a
partire dalla fede degli altri.
Uno sforzo di comprensione
che ci ha interrogati fin
nel profondo. E anche un
atto di amore di cui si sentiva
bisogno.
La visita alla sinagoga di
Torino ha comportato uno
sforzo per capire la fede
dei nostri fratelli ebrei sia
attraverso un cammino di
preparazione che è stato
fatto con il Gruppo missionario
di Up, sia attraverso
le spiegazioni che ci sono
state offerte in modo particolare
dal rabbino Somekh
che ci ha accolti e accompagnati.
I risultati di questo
percorso di comprensione
sono stati sorprendenti e
stimolanti.
Ha colpito inizialmente il
particolare rapporto che l’ebreo,
come popolo e come
persona, ha con Dio. Abbiamo
imparato che importante
per l’ebreo non è conoscere
la natura di Dio, questione
che ha invece molto
impegnato la riflessione cristiana,
sia occidentale che
orientale, nel corso dei secoli.
Ciò che conta è cercare
di sapere che cosa Dio vuole
che noi facciamo. Es. 24,7
«Tutto ciò che il Signore
ha detto noi lo eseguiremo
e lo staremo a sentire». Da
qui la concezione ebraica di
Dio, che nel corso dei secoli
definisce l’halachà, la via da
seguire o regola da rispettare.
Tutta la vita dell’ebreo
è spesa per cercare, applicando
l’halachà, di diventare
immagine di Dio, che è
al contempo assolutamente
trascendente e inconoscibile,
ma che anche cammina con
il suo popolo.
All’ebreo interessa di più
questa vita dell’altra. Vuole
vivere santamente questa
vita, indipendentemente da
futuri premi o punizioni. Il
fine della vita è osservare le
leggi di Dio date con la Toràh.
Nella Toràh e in altri testi
(soprattutto i profeti) e in
alcuni brani liturgici ci sono
riferimenti al Regno dei Morti
e a un’epoca di resurrezione,
ma siccome nulla è detto
di preciso si sono sviluppate
correnti diverse, nessuna delle
quali considerata eretica.
La preghiera ebraica poi ha il
cuore nell’annullamento della
volontà umana dinnanzi
al dovere di servire Dio. Non
è tanto frutto di sentimenti
estemporanei e non si esprime
in parole improvvisate
che sgorgano dal cuore come
fatto emotivo (anche se è
ammessa), ma ha una forma
fissa e codificata. Prescinde
dalla situazione personale
e dalle richieste personali e
rappresenta un atto di omaggio
e sottomissione a Dio e
alla sua potenza. È di riconoscimento,
o glorificazione, di
inno, lode, richiesta, ringraziamento,
benedizione a Dio.
Ha due ramificazioni: la berachàh
(benedizione) e la tefillàh,
che è il rituale liturgico
che si celebra in sinagoga.
Anche la casa, oltre alla sinagoga,
è un luogo di preghiera;
la casa ebraica è ritenuta un
santuario e la mensa quasi un
altare. È in casa che il venerdì
sera si accoglie il sabato. La
donna accende le candele e
recita la relativa berachàh. In
casa si fa il kiddùsh (la santificazione
della festa), dicendo
la benedizione sul vino. Ed è
sempre in casa che alla sera
del sabato si celebra una breve
cerimonia sottolineando il
passaggio ad un’altra settimana
di lavoro. In sostanza vale
quel che si diceva all’inizio:
all’ebreo non interessa conoscere
l’essenza di Dio.
L’ebraismo
è la religione dell’azione,
perciò è etica in atto. L’uomo
capisce Dio operando. Il
buon agire, cioè l’etica, diventa
l’asse portante e già questo
mi sembra una bella ricchezza
che ci è stata consegnata
dalla visita in sinagoga.
L’incontro con gli evangelici
è stato altrettanto ricco. Si è
svolto nel contesto della Settimana
di preghiera per l’Unità
dei Cristiani ed ha visto
i due predicatori (il pastore
Paolo Ribet per gli evangelici)
affrontare i temi suggeriti dal
profeta Michea e da Paolo con
la Lettera ai Galati. La predicazione
incisiva del pastore
Paolo Ribet ha colto l’urgenza
pressante di giustizia che
emerge dal processo che Dio
intenta al popolo di Israele
al quale chiede di «praticare
la giustizia, amare la bontà,
camminare umilmente con il
tuo Dio» (Mi 6,6-8). L’attualizzazione
ha colto l’analogia
tra i tempi di Michea, caratterizzati
da scossoni politici,
turbolenze internazionali,
ingiustizie sociali e degrado
religioso e i nostri non meno
agitati e incerti sia sul piano
nazionale e internazionale,
che etico/morale. Ha fatto
emergere anche in questo
caso una forte esigenza etica
che discende dal praticare la
volontà di Dio, che si ricava
dal suo insegnamento. Paolo
poi, è il commento di parte
cattolica, ci guida verso un
itinerario di fede che consiste
principalmente in Gesù
Cristo, il Giusto per eccellenza;
per suo tramite possiamo
entrare in un giusto rapporto
con Dio e tra di noi, in comunione
con il Padre e con
il mondo. È la stessa fede di
Abramo, che anticipa di 430
anni la Legge, e più ancora
quella di Gesù, che abbatte le
barriere della legge, di tutte le
leggi.
Emerge che la «legge» di
Gesù va oltre il pedagogo che
impone precetti e proibizioni
ed è la legge dell’amore che ci
rende una cosa sola con Cristo.
E questo ci rende liberi
e non ha più importanza essere
ebreo o pagano, schiavo
o libero, uomo o donna. È la
vocazione ad amare secondo
lo spirito e l’esempio di
Gesù. È quell’amore che ci
fa accogliere il prossimo (che
è poi Gesù nelle sue varie
manifestazioni: il carcerato,
l’assetato, l’affamato, in una
parola «l’altro», soprattutto
nel bisogno) e nell’accoglienza
ci riempie di Gesù e ci trasforma
in lui («non sono più
io che vivo in Cristo, è Cristo
che vive in me», è la meta indicata
da Paolo).
È il fratello la via per arrivare,
con la mediazione di Cristo,
al Padre.
L’amore attraverso
le Beatitudini trascende la
legge/prescrizione e diventa
un codice etico/esistenziale
fondato sul dono integrale
e gratuito di sé. Non hanno
pesato le differenze teologiche,
che non siamo certo noi
chiamati a risolvere e che nella
vita concreta fatta di ricerca
di rapporti e rispetto non
devono pesare più dell’amore
reciproco, si è vissuto un
intenso momento di unità.
In conclusione la visita in sinagoga
e la preghiera ecumenica
hanno avuto un tema
costante e comune: l’etica
praticata e vissuta. Senza l’etica
praticata l’incoerenza
con l’insegnamento del Padre
è massima. Nella omelia
della Messa delle Ceneri, il
Papa ha detto: «Anche ai nostri
giorni molti sono pronti
a ‘stracciarsi le vesti’ di fronte
a scandali e ingiustizie,
naturalmente commessi da
altri, ma pochi sembrano disponibili
ad agire sul proprio
‘cuore’, sulla propria coscienza
e sulle proprie intenzioni,
lasciando che il Signore trasformi,
rinnovi e converta».
L’etica ricercata, praticata e
vissuta potrebbe essere per
tutti noi un buon cammino
quaresimale (e non solo).
Diacono Roberto PORRATI
Articolo pubblicato su "Testata d'Angolo" del 17/02/2013
domenica 17 febbraio 2013
La Fede dei fratelli
Etichette:
Anno della Fede,
Ebraismo,
Religione,
Riflessioni
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento