giovedì 13 settembre 2012

Al centro della Chiesa c’è la regola dell’Amore

Nello scorso numero di «Testata d’Angolo» ho scritto della Chiesa missionaria e alcuni mi hanno avvicinato per dirmi quanto la Chiesa, secondo loro, sarebbe più vicina alla gente, e anche più appetibile, se fosse più «democratica», cioè assumesse le decisioni a maggioranza, perché questa è l’essenza della democrazia. Premesso che quando si perde il bene della democrazia accadono sempre cose piuttosto brutte (si pensi alle dittature di ogni tempo e luogo), siamo poi così sicuri che in democrazia governi davvero la maggioranza? Facciamo l’esempio degli Stati Uniti, la più importante democrazia del mondo. Alle elezioni presidenziali partecipa circa il 60% degli aventi diritto (che non sono la totalità dei cittadini maggiorenni); il Presidente viene eletto dalla maggioranza dei votanti e questo significa che viene eletto dal 20/25% degli aventi diritto. Si tratta di una minoranza abbastanza evidente.
Un partito che raggiunga il 30% dei consensi si gonfia il petto, dimenticando che gli è contrario il restante 70%. La competizione elettorale, poi, comporta soprattutto il confronto tra posizioni diverse. In politica questo si traduce con il coagularsi delle posizioni su diversi partiti che, per loro natura, difendono gli interessi di una «parte». Si può allora dire che la democrazia per sua natura contempli la divisione. La democrazia è certamente un valore nella società contemporanea, ma potremmo anche dire che in fondo è il male minore rispetto ad altre forme che non consentono alcun tipo di partecipazione. Abbiamo davvero bisogno di questo nella Chiesa? Facciamo l’esempio di un Consiglio pastorale parrocchiale che si muova con questa logica. Il parroco presenta una sua proposta e la mette ai voti. Intorno alla proposta si coagula il gruppo del parroco, ci mancherebbe altro, al quale si contrapporrebbe un altro gruppo più o meno esplicitamente contrario. Nella terra di mezzo i soliti che si barcamenano. Presa la decisione i contrari resterebbero tali e si sentirebbero legittimati a difendere le loro posizioni davanti alla comunità. Il risultato è una maggiore corresponsabilità o una maggiore e conclamata divisione? Si potrebbe obiettare che le cose non vanno certamente meglio se le decisioni sono prese dal parroco soltanto e sono indiscutibili. Vero, ed è sicuramente successo un’infinità di volte, ma la Chiesa è questo? La Chiesa nella sua essenza, a questo proposito, è segnata dalle correnti culturali del tempo o ha qualcosa che la distingue da ogni altra organizzazione umana, la pone per così dire fuori da questa logica e la rende unica? La Chiesa non è semplicemente una comunità; se così fosse sarebbe sì un popolo che fa riferimento a Dio, ma seguirebbe logiche soltanto umane. La Chiesa è una comunità che ha la presenza, reale e costante, di Cristo e questo la sottopone esclusivamente alla legge di Dio, che è sostanzialmente l’amore. La prima cosa da sottolineare è che Cristo vive nella sua Chiesa sotto la specie sacramentale, ma non soltanto, basti pensare a quel «dove due o più si riuniscono nel mio nome là io sono». Allora si tratta di capire come si deve vivere l’amore nella Chiesa. Si tratta, meglio, di capire che cosa Cristo propone alla società umana quando chiede di configurare la vita alle leggi dell’amore, che vuol dire, sostanzialmente, ai due insegnamenti fondamentali «Ama il prossimo tuo come te stesso» e «Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi». Senza entrare nello specifico di questi due insegnamenti, cerchiamo di capire che cosa comporta nella pratica amare nella Chiesa. Se Cristo è presente nella sua Chiesa, lo è sempre, non soltanto nella Messa, ma anche nelle riunioni. Ritorniamo allora al nostro Consiglio parrocchiale. Quando è riunito cominciamo a pensare a Gesù concretamente tra i presenti: il clima cambia. Chi ha il compito di proporre sa che, qualunque sia il tema, la sua proposta non può essere banale, meno che mai arrogante, ma semmai un dono (l’amore è sempre un dono). Chi accoglie la proposta lo fa con delicatezza, perché i doni non si sciupano. Questa è una delle prime cose che si insegnano a un bambino. E tutti contribuiscono alla discussione non con l’intenzione di prevalere, ma per donare a loro volta. Poi qualcuno dovrà tirare le fila, e sarà il parroco, ma in un clima di condivisione, che vedrà protagonisti alla pari anche chi ha donato cose diverse dalla decisione finale, che sarà comunque di tutti. Il frutto finale è l’unità costruita dalla presenza di Cristo. Alla Chiesa non serve più democrazia, ma più amore praticato. diacono Roberto PORRATI

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