Tra il 1989 e il 1990 Loredana Garruto iniziava una nuova attività lavorativa presso il Centro trapianti midollo osseo dell’Ospedale torinese Regina Margherita. Viveva una situazione nuova e di grande disagio. Non conosceva nulla di oncologia ed era colpita dalla frequenza delle morti dei piccoli: un continuo trasportare barelle chiuse all’obitorio. Provava ad alleviare quelle situazioni di disagio e sofferenza cercando di strappare un sorriso ai bambini e alle mamme man mano che da ausiliaria passava per le camere a svolgere il suo servizio, cercando di creare rapporti di amicizia, ma era spaventata e angosciata, tanto da vivere ancora oggi il disagio di allora. Quando si entra nei panni degli altri, nel dolore degli altri, se ne resta feriti, come se si vivesse il proprio dolore. C’era però una camera con una caratteristica particolare: ospitava una ragazza molto silenziosa, molto sofferente, ma che non si lamentava mai. Lì non si entrava per strappare un sorriso, perché l’atmosfera era particolare. La stanza era molto personalizzata con arredi e biancheria portati da casa; molto ordinata, molto discreta, molto silenziosa. Per la ragazzina di quella camera era il periodo più duro, perché l’equipe del dottor Brach del Prevert aveva accertato tutta la gravità del male e la famiglia in qualche modo cercava di farsene una ragione. La mamma era cordiale, ma molto riservata. Spesso si limitava al saluto. Quando non rispondeva era perché madre e figlia erano in preghiera. Era piuttosto usuale trovarle a pregare con il rosario in mano. Allora veniva naturale a Loredana uscire in silenzio per rispettarne il raccoglimento. Spesso rispondevano alle domande più con gli occhi che con le parole e lei restava colpita da questa riservatezza calma, dalla quale non traspariva mai disperazione. La ragazza pur nella sua riservatezza era espansiva, ma molto seria, e si sentiva a suo agio in quella camera così personalizzata. Amava molto lo studio, sempre circondata da libri. E scriveva molto. Entrare in quella camera era una esperienza molto particolare. Silenzi prolungati,studio,applicazionee preghiera profonda che non si interrompevano di fatto mai. Il papà è ricordato come un bell’uomo alto, con la barba, che spesso da Sassello portava i noti amaretti, anche per il personale. Era una persona aperta. Tutta la famiglia era unita come un pugno chiuso, apparentemente senza sbandamenti e cedimenti. A Loredana di quella ragazzina sono rimasti lo sguardo e il silenzio, che rimandava a qualcosa oltre. Da lei mai scenate, nonostante le notizie fossero più brutte che belle. Mai una reazione negativa. Non subiva la situazione, ma la accettava con una grande fede. Loredana si è fermata in quel reparto soltanto per un mese, poi venne trasferita. Ma quell’esperienza l’aveva segnata profondamente. Poi passano gli anni. Ora non è più in reparto, ma lavora negli uffici dell’ospedale, quando sente che nella parrocchia sanmaurese del Sacro Cuore si tiene un incontro in previsione della beatificazione di una giovane, Chiara Luce, alla quale la parrocchia ha dedicato l’oratorio. Partecipa all’incontro, sente la testimonianza del dottor Ferdinando Garetto e scopre che Chiara Luce altri non era che Chiara Badano, quella ragazzina silenziosa, raccolta, capace di pregare incessantemente in tutte le situazioni, che tanto l’aveva colpita al Regina Margherita e ci ha fatti partecipi della sua esperienza inedita, che noi volentieri consegniamo ai nostri lettori.
Roberto Porrati
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